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Psicoanalisi e Antropologia

Psicoanalisi e Antropologia

I rapporti tra cultura, personalità e inconscio

Autore/i: Róheim Géza

Editore: Rizzoli

unica edizione, nota e introduzione dell’autore, edizione italiana a cura di Francesco Saba Sardi.

pp. 576, Milano

Nel 1928, iniziando la prima serie di indagini «sul campo » intraprese da un antropologo di formazione psicoanalitica, Géza Ròheim apriva un nuovo capitolo nella storia della ricerca scientifica interdisciplinare. Ne furono oggetto soprattutto gli indigeni dell’Australia Centrale, ma anche quelli dell’isola Normanby, gli indiani Yuma, i Kaingang e, di riflesso, alcuni gruppi «civili» o «moderni». Frutto lentamente maturato e meditato di queste osservazioni, Psicoanalisi e antropologia, apparso nel 1950, oltre che un affascinante panorama etnografico disseminato di annotazioni curiose e stimolantissime, costituisce anche e soprattutto la summa del pensiero di Ròheim, quella dove più esplicitamente sono esposti i risultati di un pluridecennale ripensamento del freudismo. Alla spiegazione filogenetica della cultura formulata da Freud, Ròheim contrappone l’interpretazione ontogenetica. Secondo Freud, esisterebbe un rapporto tra la cultura umana (in particolare totemismo, religione e struttura sociale) e le vicissitudini della famiglia originaria, l’orda primigenia; ma la validità dell’ipotesi di una trasmissione ereditaria delle memorie a questa connesse, era apparsa insostenibile a Ròheim fin dagli anni della sua formazione giovanile, di studioso del folklore ungherese, inducendolo ad attribuire il ruolo principale, nella costituzione dei moduli culturali e istituzionali, alla situazione infantile, biologicamente condizionata. Quella che Ròheim propone, e dunque una teoria della cultura in cui biologia e anatomia hanno importanza primaria. L’uomo, spiega Ròheim, è caratterizzato da un periodo infantile straordinariamente lungo rispetto ad altri animali, e il legame fisiologico con la madre si traduce necessariamente in nesso emozionale e sociale, obbligando l’essere umano alla creazione e al mantenimento di continui rapporti con gli altri. Il protrarsi della simbiosi madre-figlio, se da un lato spiega la coesione e l’organizzazione sociale, è d’altro canto la fonte di risvolti negativi: dipendenza e gelosia, ansia, impotenza, paura di castrazione e di separazione. Così si spiega anche la differenziazione, esclusivamente umana, tra io e nonio, tra sé e mondo esterno; e cosi anche la spinta fondamentale dell’uomo al raggiungimento della felicità, nel tentativo “di sottrarsi alla scontentezza e alla delusione”.
L’attaccamento alla madre essendo la prima fonte del piacere, il contrario di questo è dato dalla sua assenza. Sicché, l’essere umano è capace di scaricare la tensione solo tramite un altro organismo; l’«istinto» è sostituito da moduli comportamentistici appresi, il sogno è una difesa, nel senso che ristabilisce il contatto con realtà, dalla regressione e rinfantilizzazione rappresentate dal sonno; e ambivalenza, angoscia, aggressione, sono una «separazione» seguita da una «riunificazione» magari forzosa: una situazione resa drammaticamente evidente nei riti di iniziazione», e che va intesa quale ripetizione del fondamentale dualismo del rapporto madre-figlio. Allo stesso modo, il complesso di Edipo-, lungi dall’essere il risultato di un ricordo ereditario, quello dell’orda in cui il padre veniva, presume Freud, effettivamente ucciso, è, secondo Ròheim, l’inevitabile conseguenza della famiglia umana e del prolungamento dell’infanzia.
L’uomo ha dunque inventato la cultura a causa della sua infanzia prolungata, ovvero dell’intollerabilità delle tensioni; nel tentativo di dominare il reale, crea la società, cioè un mondo simbiotico ben funzionante di esistenza. Anziché il parricidio e l’incesto, si hanno così il Super-io e la formazione di gruppi. Ma il concetto di cultura come timore per la perdita di oggetti e l’ansia di separazione (donde il sacrificio delle gratificazioni immediate), non equivale certo a una visione ottimistica dell’essere. E accade così che l’uomo campeggi, nel vasto, articolatissimo discorso di Ròheim – un discorso che, nella sua tenace volontà di equiparazione di razionale e reale, costituisce un monumentum aere perennius alla psicoantropologia e insieme un ultimo baluardo logocentrico -, quale un coacervo di infelicità, struggimenti, ansie immedicabili. Per cui, nell‘opera di Ròheim è costantemente avvertibile un soffio di poesia e di malinconia, come del resto ben s’addice a quest’estremo, grande rappresentante della cultura mitteleuropea al tramonto.

Nato a Budapest nel 1891 da una famiglia di ricchi commercianti, Géza Ròheim fin dalla più giovane età mostrò vivo interesse per lo studio dei miti e delle favole, divenendo ben presto un esperto di folklore ungherese.
Dopo aver frequentato l’Università di Budapest, studiò a Lipsia con Karl Weule e a Berlino con Felix von Luschan. In Germania si familiarizzò con il pensiero di Freud; tornato in patria, divenne uno dei dirigenti del Museo Nazionale Ungherese e, sotto la guida di Sàndor Ferenczi, si dedicò all’attività analitica. La duplice natura della sua preparazione scientifica e le vaste conoscenze letterarie gli permisero di tentare tra i primi una convergenza tra pensiero psicoanalitico e antropologico, integrando Io schematismo scientistico con una sensibilità vivissima per gli aspetti estetici e per la «condizione esistenziale» dei gruppi umani «visitati» più che semplicemente studiati, sì da evitare quella che Roger Bastide definisce «etnologia consolare o di esportazione». Nel 1938, per sfuggire alle persecuzioni razziali, si trasferì negli USA, dove morì nel 1953. Viaggiò a lungo in quattro continenti, analizzando con metodo minuzioso e mente creativa i miti, i sogni, le credenze, le cerimonie, i giochi, le feste, le abitudini sessuali e alimentari, di somali e australiani, di melanesiani e amerindi, fedele al principio di una sostanziale unità dell’essere, rivelata dall’« universalità dell’Inconscio». Delle molte opere pubblicate in vita e postume, sono state tradotte in italiano, oltre a questa Psicoanalisi e antropologia che è il suo capolavoro, Gli eterni del sogno, Origine e funzione della cultura, Le porte del sogno, I – Il ventre materno, e Magia e schizofrenia.

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