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La Pittura Giapponese

La Pittura Giapponese

Storia generale della pittura

Autore/i: Lèsoualc’h Théo

Editore: Il Saggiatore

introduzione di Jean-Clarence Lambert, traduzione dal francese di Aldo Ciaruttini, in copertina: stampa «Shuncho» giovani donne che ammirano delle peonie in fiore – conservata a Parigi nel Museo Guimet.

pp. 208, nn. illustrazioni a colori e b/n, Milano

Dall’introduzione:
«L’arte del Giappone ci è vicina per la seconda volta in un secolo; ma indubbiamente questa è la prima volta che siamo in grado di valutare gli elementi che ci separavano da essa, di apprezzarla nella sua diversità.
L’espressionismo, e le altre scuole che ne derivarono, dalle stampe giapponesi che vennero esposte a Parigi nel 1867, ritrassero soprattutto delle formule. Formule e precedenti che giustificavano le audacie che i pittori sentivano necessarie in quel tempo. Whistler, il cui Old Battersea Bridge fece scandalo, ribatte: Hiroshige.
Degas, con le sue composizioni diagonali, le sue oblique contrastate, i suoi grandi piani: era Hokusai che gliene aveva offerto la tentazione, Né Monet avrebbe tagliato a metà tante barche, né spinto così avanti la sua evocazione del «giorno senz’ombra e che non è che se stesso», se non avesse avuto l’incitamento dell’ukiyo-e. […]
Ammettere che la perfezione possa nascere dal meno, noi, abituati da secoli alla profusione di ricchezza, italiana o fiamminga, bizantina o barocca!…Poichè la pittura giapponese è la pittura del meno, cioè della riduzione dell’essenziale, raggiunto e fissato attraverso una serie di operazioni psichiche e di gesti precisi, ognuno dei quali sottintende un modo di esistere e un comportamento morale. L’essenziale astratto del tempo e dello spazio, che significa: niente fondo, niente effetti di luce; niente prospettiva illusoria; insomma, nessuno dei segni particolari e superflui che per tanto tempo sono stati il diletto degli Europei… Ciò che vuol dire, di conseguenza, l’esaltazione del particolare, il granello di sabbia che contiene un mondo intero, che manifesta l’accordo tra l’oggetto e il soggetto: mio… Mio non è un termine che si possa veramente tradurre: forse la bellezza che sfugge al cosciente? […]
In Giappone questo dello spettatore è uno sguardo capace di cogliere il movimento interno dell’opera per poterlo prolungare in qualche modo. […]»

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