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Il Rito Hako – Una Cerimonia della Tribu dei Pawnee

Il Rito Hako – Una Cerimonia della Tribu dei Pawnee

Titolo originale: The Hako

Autore/i: Fletcher Alice C.

Editore: La Nuova Italia

unica edizione, presentazione di Elémire Zolla, traduzione di Elena Potsios.

pp. XX-168, illustrazioni b/n, Firenze

«Si dice rito sacro quell’azione che intona musiche a profumi, a gesti e pose di danza, a visioni di sacri colori e forme, a meditazioni e a sospensioni d’ogni pensiero. I cinque sensi sono coinvolti, intrecciati e annodati come sopra un telaio i fili d’un ordito; chi partecipa è fuor di sé, fuor del tempo grazie al puro ritmo che si apre sul silenzio, fuori dello spazio grazie all incardinamento in un centro che diventa il centro dell’universo. Al culmine del rito, i cinque sensi sono colmati fino all’orlo di impressioni auguste, stilizzate, il sentimento è assorto nella gioia della lode, la ragione è tutta compresa nell’analisi dei riferimenti simbolici. Queste potenze dell’uomo sono trascese per eccesso, l’energia pura dell’uomo è allora sospinta fuor di sé (è questo il significato di estasi) e intende ciò che non è sensibile, né sentimentale, e non è raziocinante perché è la fonte d’ogni razionalità». (Elémire Zolla).

Alice C. Fletcher assistette alla cerimonia Hako eseguita da Indiani Omaha attorno al 1880.
Tentò di preservarne la sublime memoria, ma prima che lo potesse, l’ultimo maestro di cerimonie morì. Nel 1898 potè rivedere lo Hako, eseguito dai Pawnee. Le ci vollero quattro anni per trascriverlo, con l’aiuto di un Pawnee e grazie alle rivelazioni di Tahirussawichi, un sacerdote di settantanni, cerimoniario, esperto di reliquie, di simboli, di erbe, il che si dice in una parola, in pawnee: ku’rahus. Risultato di quel lungo lavoro, questo libro ci preserva uno dei sommi riti sacri, fra quanti si conoscono, lo Hako, un rito per stringere un’altra amicizia. Chi partecipa non è detto che sappia enunciare la teoria del rito, basta che senta in sé la metamorfosi grazie a una vigile, abbandonata attenzione, ricevendo, grazie alla qualità incantatola dei gesti, dei profumi, delle visioni, dei canti, dei significati più o meno intravisti, un influsso che non è materiale, che non è psichico e non è razionale perché impone una così ardua, tenace decrittazione di sensi metafisici, da spingere al di là del povero discorrere, del semplice ragionare. Tutto in un autentico rito è puro e casto, dei suoi colori si può dire che sono caritativi, cioè senza debolezza, senza voluttà. Chi giunga al piano non umano, spirituale, prova il bisogno di aiutare con qualche stilla di quel refrigerio coloro che tutto ignorano di quella possibilità e potenza: si sente mosso da carità, deve contemplata aliis tradere. Ma come? Largendo la più pura sostanza del suo spirito sì da riempirne l’altrui vuoto, come il pellicano che nutre i figli col proprio sangue, come il sommo cerimoniario dello Hako, uno dei tanti maestri spirituali dell’umanità, Tahirussawichi, che accondiscese a svenarsi metaforicamente, gettando in pasto al pubblico i suoi segreti, rischiando così di invilirli, e affrontò perfino l’oltraggioso viaggio alle città dei nemici per trasmettere qualche grano del suo oro filosofico, prima che se ne estinguesse la fonte, proprio a loro, come più tardi farà Alce Nero.

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Argomenti: Riti, Tradizioni,

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