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Canone Buddhistico – Così è stato Detto

Canone Buddhistico – Così è stato Detto

(Iti vuttaka)

Autore/i: Anonimo

Editore: Bollati Boringhieri Editore

introduzione, traduzione e note di Vincenzo Talamo.

pp. 152, Torino

“Questi due, o bhikkhu, sono i doni: il dono materiale e il dono della Dottrina; fra questi due doni, o bhikkhu, quest’ultimo eccelle, cioè il dono della Dottrina.”

“Colui ch’è desto, consapevole e riflessivo, concentrato, lieto e sereno, opportunamente e rettamente meditando sulla Dottrina, con la mente raccolta, dissolverà le tenebre.”

Dall’introduzione di Vincenzo Talamo:
«Il Buddhismo Theravāda, o Buddhismo degli Anziani, alla cui letteratura canonica il presente volume appartiene, si può considerare la forma più genuina della Dottrina esposta venticinque secoli or sono dallo Svegliato e a noi tramandata attraverso il canone pāli. Anche oggi l’insegnamento teorico e pratico, i metodi, le regole disciplinari in vigore nei monasteri (vihāra) delle regioni in cui si professa il Buddhismo Theravāda presentano solo trascurabili differenze nei confronti dell’insegnamento, dei metodi, delle regole ch’erano in vigore al tempo del Sublime.
Questo ramo del Buddhismo è tuttora fiorente a Ceylon, nel Siam, in Birmania, in Cambogia, nel Laos, mentre più largo sviluppo ha avuto l’altra grande branca del Buddhismo, cioè il Buddhismo Mahayāna, o Buddhismo del Grande Veicolo, sorto alcuni secoli dopo e rapidamente propagatosi in Cina, nel Giappone e nel Tibet, andando incontro, in ciascuno di questi paesi, a sensibili modificazioni per adattarsi alla “forma mentis” locale. È opinione comune che la piu larga diffusione del Buddhismo Mahayāna sia stata determinata dal fatto che esso più dell’altro si presta ad appagare le esigenze fideistiche e devozionali delle masse, e questo può anche essere vero, almeno in parte. La Dottrina originaria, infatti, non è né fideistica né devozionale. Sottile, profonda, difficile, com’ebbe a definirla lo stesso Buddha, essa non ha i requisiti di una dottrina suscettibile di una diffusione a largo raggio, che possa aspirare ad una sorta di cattolicità. Eminentemente aristocratica, essa non è fatta per le masse, bensì per quei pochi che il proprio “kamma”, maturatosi attraverso innumerevoli esistenze, ha reso atti a riceverla. È, in certo qual modo, una “porta stretta” attraverso la quale pochi riescono a passare.
Insussistente al contrario è la differenza, che da alcuni si vorrebbe porre tra le due grandi branche del Buddhismo e che consisterebbe in un preteso carattere egoistico del Theravāda nei confronti del Mahayāna. Si contrappone infatti non infrequentemente l’ideale “altruistico” del Mahayāna, rappresentato dalla figura del Bodhisattva, all’ideale “egoistico” del Theravāda che trova la sua espressione nella figura dell’Arahant; mentre il primo – si dice dai sostenitori di questa tesi – si adopera instancabilmente per la salvezza di tutti gli esseri, rinunciando per essi al nirvāna”, l’Arahant, quasi dimentico delle tribolazioni che affliggono l’umanità, si gode tranquillamente il “suo personale nirvāna”.[…]»

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